Se il 2021 è stato l’anno della Great Resignation, il 2022 sembra essere quello del Quiet Quitting: comunque la si voglia vedere, l’esperienza collettiva della pandemia ha cambiato radicalmente la percezione del ruolo del lavoro nelle nostre vite. A livello globale, i dipendenti continuano a valutare le proprie identità lavorative e a chiedersi se il gioco valga la candela – e molti tra loro pensano di no: come emerso dall'Edelman Trust Barometer Special Report: The Belief-Driven Employee, nel 2021 un intervistato su cinque affermava di aver lasciato il lavoro nei sei mesi precedenti o di aver intenzione di farlo. L’aspetto più interessante della ricerca è tuttavia la motivazione per questa decisione: la ricerca di valori condivisi (59%) e uno stile di vita migliore (55%) pesano maggiormente rispetto a una retribuzione più alta (31%). La Great Resignation, in sostanza, ha fatto emergere che oggi a scegliere non è soltanto il datore di lavoro, ma anche il lavoratore che, come quando seleziona un prodotto o servizio, vuole essere certo che l’azienda che lo accoglierà risponda alle sue aspettative: le persone scelgono il proprio lavoro in base alle proprie convinzioni (61%), con una percentuale che sale al 67% tra le nuove generazioni (18-34 anni). 

Chi non prende in considerazione la ricerca di un nuovo lavoro, invece, attraverso il Quiet Quitting rifiuta l’idea che il lavoro sia al centro della propria vita. Questa tendenza rispecchia in realtà non tanto la volontà di un dipendente di lavorare con il minimo sforzo, ma è la conseguenza di una scarsa capacità di trasmettere valore al proprio dipendente: la scarsa motivazione è dunque una reazione al sentirsi non adeguatamente apprezzati e non percepire supporto e sistema di valori della propria organizzazione.

 

IL PATTO DI FIDUCIA TRA AZIENDA E LAVORATORE
Una recente ricerca della Harvard Business Review ha infatti fatto emergere come il fattore principale che rende un dipendente motivato sia la fiducia verso l’azienda e i suoi leader.  Un dato confermato anche dall’Edelman Trust Barometer Special Report: Trust in the Workplace, dove il 78% degli intervistati a livello globale dichiara di riporre fiducia nel proprio datore di lavoro.

Per queste ragioni, costruire un marchio che attiri e mantenga i talenti – l’employer branding – è in cima all’agenda delle C-suite ed è la priorità più critica tra i CMO (Forrester), e avere una leadership che trasmetta fiducia e interesse nei confronti dei propri dipendenti rappresenta un fattore chiave a supporto.

 

COSTRUIRE E RACCONTARE I VALORI DELL’AZIENDA
Ma di cosa parliamo esattamente quando ci riferiamo all’employer branding?  È il modo in cui un’azienda presenta e ‘commercializza’ sé stessa verso chi cerca lavoro e verso i suoi stessi dipendenti. Quanto più positiva è la percezione del marchio aziendale, tanto maggiore è la probabilità di attrarre i migliori talenti e mantenere team motivati ​​e leali.

La definizione di una strategia di employer brand è quindi un metodo per tradurre i valori e la personalità di una organizzazione ed elevarne la percezione – un’offerta completa di tutto ciò che un’azienda può offrire a beneficio della risorsa più importante: i suoi dipendenti. Sono loro, infatti, i più importanti brand ambassador verso l’esterno: una ricerca LinkedIn dimostra che i candidati si fidano dei dipendenti tre volte di più rispetto a quanto si fidino dei datori di lavoro. 

 

LA CENTRALITÀ DELLA EMPLOYEE VALUE PROPOSITION
Al cuore di una strategia di employer branding c’è sempre una employee value proposition (EVP), costituita dai benefici e dalle ricompense che i dipendenti ricevono in cambio del loro tempo, energia, capacità e impegno (compensazione, benefit, flessibilità, PTO, welfare, stabilità, formazione, crescita, luogo di lavoro, cultura e valori aziendali…). Come spiega Richard Edelman, l’EVP ‘assomiglia a un treppiede che sta in equilibrio sui tradizionali incentivi della retribuzione e dell'avanzamento di carriera, una rinnovata attenzione al benessere dei dipendenti, con orari flessibili e lavoro a distanza, e ora un impegno del datore di lavoro ad agire per il bene della società.’

L’EVP deve essere trasferita all’esterno attraverso attività di diffusione e comunicazione che facciano emergere gli elementi attrattivi e trasmettano l’unicità di una organizzazione e di ciò che offre. Sappiamo infatti da una ricerca Randstad che l’86% dei dipendenti e delle persone in cerca di lavoro ricerca recensioni e valutazioni delle aziende per decidere dove candidarsi; il 68% dei Millennial, il 54% dei Gen-Xer e il 48% dei Boomer hanno dichiarato di visitare i canali social di un datore di lavoro specificamente per valutarne il marchio; il 50% dei candidati afferma che non lavorerebbe per un’azienda con una reputazione negativa, nemmeno per un aumento di stipendio, e il 92% delle persone valuterebbe la possibilità di cambiare lavoro se gli venisse offerto un ruolo in un’azienda con un’eccellente reputazione. Un forte employer brand può inoltre ridurre il costo per assunzione fino al 50% e una reputazione negativa può costare a un’azienda fino al 10% in più per assunzione.

 

EVP: IL RUOLO DEI LEADER
Nell’odierna competizione per i talenti, infine, i leader svolgono un ruolo cruciale nel definire ed elevare il marchio aziendale. I dirigenti di oggi si trovano a navigare un ambiente complesso, con numerosi stakeholder e crescenti aspettative di accessibilità e trasparenza; da loro ci si attende una posizione chiara ed informata su temi sociali e sfide globali. Il 63% delle persone si aspetta infatti che un CEO sia attivo sui social media (2022 Edelman Trust Barometer Special Report: Trust in the Workplace).

L’employer branding è un elemento sempre più rilevante che ogni azienda, piccola a grande, deve considerare. Perché ogni organizzazione sviluppa una reputazione, che lo desideri o meno. Meglio quindi governare il processo in maniera consapevole, ed essere i protagonisti della propria storia.

 

Elisabetta BelloDigital Lead & Head of Connected Storytelling EMEA